Conversazioni sulla relazione di coppia

 

Conversazioni sulla relazione di coppia

Intervista a Davide Milonia, direttore del Centro Clinico Lo Snodo

di Anna Restaino

 

La prima cosa che chiederei è perché certi amori durano “per sempre” ed altri improvvisamente finiscono, nonostante siano stati fortemente intensi?

L’intensità di una relazione non è garanzia della durata, anzi spesso è proprio l’opposto; “Fuoco di paglia”, si dice. Un amore dura perché si è determinati a farlo durare. Non esistono amori che durano e amori che non durano. L’amore è l’apertura di una possibilità, spetta al singolo realizzarla. Il motivo della durata forse va cercato nella scelta di investire su un dato partner piuttosto che su un altro. Perché investo su una persona con cui poi le cose non vanno?


Se l’amore è una questione di volontà, allora non è vero che “all’amore non si comanda”?

Non si tratta di volontà, intesa come calcolo razionale e consapevole. L’amore è un sentimento, cioè qualcosa che sentiamo “senza sapere” quale è il motivo che lo fa essere. Esso si presenta improvvisamente o cresce gradualmente entrando in contatto, reale o immaginario, con un’altra persona. I sentimenti, in genere, appartengono a quei “pensieri” che si sono sviluppati, filogeneticamente, per la sopravvivenza della specie e del gruppo, vengono processati a livello subcorticale, e hanno la funzione di risposta automatica e immediata alle circostanze. Individuare un nemico al primo impatto è di vitale importanza per la sopravvivenza, per agire nel minor tempo possibile la risposta deve essere rapida e immediata senza passare attraverso un sistema valutativo. Essi rientrano nelle reazioni necessarie nelle situazioni di emergenza. L’amore è un sentimento e ha la funzione di legare l’individuo al gruppo o alla figura di riferimento. Quando ci leghiamo a una persona, lo facciamo seguendo lo stesso processo: investiamo su di essa perché riteniamo, inconsciamente, che sia la persona giusta, che possa rispondere ai nostri bisogni di protezione, cura, ecc. Quello che non è previsto a livello filogenetico è che l’oggetto su cui si investe è determinato culturalmente, cioè lo si apprende nella famiglia o gruppo socio culturale. Noi ci innamoriamo di chi già conosciamo (presumiamo di ri-conoscere). La domanda che porrei è “perchè innamorarsi di un uomo violento quando hai vissuto una vita nella violenza?”, “perché innamorarsi di una donna inaffidabile quando hai vissuto stati di abbandono o scarsa cura?”. Sembra insensato ripetere nella vita situazioni da cui si è fuggito, ma dimentichiamo che non c’è nulla di più rassicuranti di ciò che “conosciamo”.
Nell’organizzazione sociale dei gorilla, il maschio dominante si pone ai margini del gruppo apparentemente a poltrire, ma in realtà sta lì a delineare un confine. Le attività del gruppo si svolgono entro certi limiti territoriali, quando i piccoli giocando non rispettano questi limiti o infastidiscono il capobranco, prontamente vengono presi a sberle. I piccoli imparano a non avvicinarsi troppo al capo, sanno che se lo fanno verranno picchiati, ma appena si presenta la minaccia di un pericolo, tutti i piccoli corrono a farsi proteggere dal capo. Questo meccanismo, scegliere di correre tra le braccia di chi ritieni ti abbia protetto nonostante le sberle, e non mi riferisco solo alla violenza ma a qualsiasi comportamento relazionale, probabilmente sta alla base anche del processo di innamoramento/investimento amoroso.

È vero che dopo tanti anni di relazione è naturale che l’amore lascia spazio all’abitudine e all’affetto dato dalla conoscenza pluriannuale, dalle tante esperienze fatte insieme e dal sentire che non si può immaginare una vita senza l’altro?

Da dove nasce questo sentimento, cioè “sentire che non si può immaginare una vita senza l’altro”? La risposta sta proprio in questa frase. Sentire che l’altro fa parte della propria vita è un sentimento che la coppia ha costruito nel tempo. Non si tratta di abitudine, è parte attiva del processo relazionale. Non è il residuo dell’amore, ma è l’amore.
C’è una commovente commedia di Eduardo De Filippo, Gennareniello, dove viene rappresentato proprio questa situazione della coppia. Eduardo, Gennarino, risponde alle provocazioni di una giovane ragazza che ha l’affaccio sul loro terrazzo. La moglie, Concetta, Pupella Maggio, sorprende il marito con altre due personaggi mentre scherza con la ragazza. Ne nasce una scenata furiosa, Concetta, stanca di questa situazione, rimprovera il marito e tutti gli altri, Eduardo non sopporta la sfuriata della moglie e va via di casa. Gli amici, gli ospiti che hanno sostenuto bonariamente la provocazione della ragazza, lo riportano in casa e per certi versi lo prendono in giro; qui insorge donna Concetta in difesa del marito e caccia via gli ospiti. Gennareniello dopo un momento di pausa si alza e va verso Concetto, seduta distante e di spalle e le canta una canzone della loro giovinezza. Il risultato è una scena commovente e struggente in cui i due vecchietti si incontrano riscoprendo un amore dimenticato. È la battuta di Tommaso, il figlio un po’ sciocco, a rompere l’atmosfera densa di commozione; una battuta che capovolge il sentimento in risata. Credo che venga qui rappresentata la situazione di una coppia armai assuefatta e sopraffatta dalla quotidianità e che riscopre il proprio amore solo in occasione della potenziale perdita del rapporto e del valore dell’altro.

Si può amare l’altro ma capire che insieme non funziona?

Credo proprio di sì. In tal caso potrebbe significare che, in uno dei due partner o in entrambi, ci sono due livelli conflittuali non integrati. Per esempio posso cogliere nell’altro un aspetto che mi attrae perché lo “ri-conosco”, per es. un modo di gesticolare, un’espressione mimica, un modo di vedere le cose quotidiane, ecc., ma che non è stato integrato con il resto della mia esperienza di vita o da cui non ho ancora preso la giusta distanza, che viene suggerita dalla propria crescita personale. Casi di questo tipo possono presentarsi facilmente quando si è cresciuti prima in un ambiente sociale, culturale, religioso e poi, per motivi di studio, lavoro o altro, ad esempio, si è vissuto in ambienti differenti. Molte coppie entrano in crisi spesso per un motivo riconducibile a queste circostanze: coppie che si trasferiscono per motivi di lavoro, donne che si affermano nella carriera o semplicemente prendono coscienza del loro valore.

Perché ci sono coppie che riescono a perdonare qualcosa di brutto all’altro e coppie che proprio non riescono?

Perdonare! Chi siamo noi per perdonare? Perdonare è una facoltà che non appartiene all’essere umano. Se si sta riferendo al così detto tradimento, allora la questione non sta nel perdonare ma nell’accettare e nel capire. Come partner posso o meno accettare che l’altro rompa un patto di fedeltà con me. Questa accettazione o meno è subordinata alla comprensione della motivazione che ha portato l’altro a rompere il patto. Il “tradimento” può avere molti significati: può essere un sintomo che segnala una disfunzione della relazione; può essere la reiterazione di un comportamento a conferma di una identità che sta vacillando (ho bisogno di sentirmi ancora capace di conquistare/essere conquistata); può essere espressione di una difficoltà a cambiare (sento il legame che si stringe e mi soffoca e questo, ad esempio, solo per il fatto che sia nato un figlio che richiede più impegno); ecc.

Gli opposti si attraggono o chi si somiglia si piglia?

Indirettamente credo di aver già dato una mezza risposta a questa domanda, ma ne approfitto per aggiungere una mia convinzione. L’attrazione per somiglianza o differenza va cercata per un verso nella struttura profonda del soggetto, quindi nella logica dell’affermazione di chi si è, e, per un altro verso, nel desiderio di trasformarla e superarla. L’incontro con l’altro offre l’occasione per crescere e sviluppare la propria soggettività. Il rapporto amoroso crea le condizioni ottimali per fare ciò che in nessun’altra situazione è possibile fare: “denudarsi”, materialmente e simbolicamente. Vedere ed essere visti per quello che si è, significa potersi permettere di accettare le proprie parti impresentabili al mondo (le vergogne), offrire le proprie parti più preziose (i gioielli). Contemplare contemporaneamente le due facce della stessa cosa; creare le condizioni per cogliere il tutto di sé e dell’altro. Se la coppia si incontra su questo piano si crea un’atmosfera di intimità germinativa che sul piano non solo simbolico ma concreto può essere rappresentata dal desiderio di generare un figlio.

Perché spesso si crede che ci siano caratteristiche “tipiche” degli uomini e altre “tipiche” delle donne nelle coppie?

Forse perché sono tali? Non so a cosa si riferisce per “tipiche”. Se mi chiede se è tipico dell’uomo e non della donna avere la barba, Io posso rispondere di sì, anche se non tutti gli uomini la portano e ci sono donne che combattono per non farla vedere. Se per “tipico” intende riferirsi ai ruoli socialmente considerati propri delle donne e degli uomini, non posso che risponderle che ad oggi l’unica cosa che ritengo essere tipica della donna è partorire un figlio. Per quanto riguarda l’uomo, nella nostra società, non vedo nulla di “tipico” o che la donna non possa fare.
Il punto però, nella coppia, è un altro: cosa ognuno dei partner considera “tipico” e quanto è condiviso, cosa succede quando le cose cambiano e il “tipico” di partenza non è più il “tipico” di arrivo? Se la scelta, l’investimento amoroso, si fonda sulla condivisione di aspetti tipici e questi reggono l’identità di uno dei due, la relazione necessariamente deve tendere al mantenimento dello status quo di partenza: tu sei la “donna”/l’”uomo”, divisione che non si limita ai ruoli in casa, con i figli, il lavoro, nella società, ai compiti e faccende, agli impegni da assolvere, alla libertà di movimento e azione, ma sconfina anche nel valore e nello sviluppo potenziale della propria soggettività; deve essere mantenuta una rigida asimmetria, il che pone le condizioni per una rottura. Infatti, se la relazione amorosa è l’occasione per emanciparsi dalla dipendenza (filiale) e affermarsi come soggetto separato e desiderante-desiderato, si concilia bene solo con la costituzione di un rapporto fondato sulla reciprocità relazionale e non sull’asimmetria. Quest’ultima risulta possibile solo all’interno della dimensione erotica e a patto che abbia le caratteristiche del un gioco, cioè con regole stabilite apriori dai partecipanti.

Come incide la cultura popolare nel funzionamento della coppia?

Noi tutti viviamo immersi in un contesto sociale e siamo, nostro malgrado, non solo influenzati ma da esso performati, per dirla con un termine caro J. Butler.
Siamo cioè costruiti dalle stesse definizioni, giudizi e pregiudizi. Dire per es. che l’uomo è “cacciatore” è performante nel senso che tutti gli uomini per dirsi uomini devono identificarsi con questo stereotipo e questo vale anche per la donna, nel senso che darà per scontato che l’uomo sia “cacciatore” o che lo vuole tale. L’incidenza della cultura popolare è molto sottile perché nel nominare le cose le crea e questo non ci permette di accorgercene, perché diamo per scontato che sia così senza ombra di dubbio.

Quanto incidono sulla relazione di coppia le esperienze di coppia precedenti? E quelle indirettamente vissute, ad esempio genitoriali?

Sono esperienze come le altre. Il punto non sta nel contenuto delle esperienze fatte, ma nella risposta che diamo alle esperienze; cosa ne facciamo di ciò che sperimentiamo? Se da esse non impariamo nulla siamo destinati a ripeterle o a riprodurle. Imparare significa averle non solo vissute ma anche rese oggetto della nostra riflessione includendo in questa riflessione il nostro essere stesso.

Incide molto nella relazione di coppia un’esperienza negativa precedente? È vero che se si è fatta esperienza, ad esempio, di continui tradimenti si perde fiducia nell’altro? (domanda frequente, spesso si sente dire: “faccio così perché sono provato/a da quello che ho passato, non mi innamorerò più”)

Questa frase che lei ha riportato mette in evidenza ciò che dicevo prima: una frase del genere può essere proferita solo da chi non ha imparato dalla propria esperienza. Prima perché l’ha ripetuta più volte, secondo perché usa l’esperienza non per crescere e perseguire il suo desiderio, ma per fuggirlo, per evitare e chiudersi in sé stessa.

È possibile credere di stare molto bene all’interno di una relazione nonostante l’altro esprima disagi costanti esplicitamente? Cosa spinge a rimanere da entrambe le parti all’interno della relazione?

Alla prima domanda risponderei di sì, è possibilissimo che uno non veda l’altro e non si renda conto del disagio che l’altro possa provare. Se uno è sordo o fa il sordo non è detto che l’altro debba insistere per essere ascoltato. Se si resta in una tale relazione significa che non ci si può permettere di esserci veramente, forse per paura di perdere l’altro o per mantenere una propria identità di vittima, o altro. Difatti quello che accade è che le cose restano ferme e se sta bene a tutti e due che le cose restino ferme nessuno al di fuori della coppia può farci nulla.

Perché la colpa e la rabbia sono sentimenti spesso presenti nelle relazioni di coppia?

Per lasciare le cose cosi come stanno. Il senso di colpa spesso ha la funzione di non andare a smuovere le acque per timore di affrontare le proprie responsabilità che non si ha il coraggio di assumere, pertanto è preferibile battersi il petto piuttosto che mettere e mettersi in discussione. La rabbia, per un verso, sostiene la colpa dell’altro e pertanto collude lui/lei per perseguire lo stesso obiettivo, per un altro verso, esprime la propria impotenza. Impotenza che rimanda forse al timore di aprire un dialogo che potrebbe mettere in crisi aspetti della coppia consolidati o irrigiditi.

Come si fa ad uscire dalla crisi di coppia? Sono utili i periodi di “pausa” per risolvere la crisi?

Prima o poi dalla crisi si esce per forza. Dipende dai due soggetti il quando. Si può uscire subito oppure aspettare che la morte di uno dei due intervenga. Cito la morte non a caso e non per rendere lugubre la faccenda. Lo spettro della morte, cioè del cambiamento di stato, non ci deve spaventare altrimenti non se ne esce. La “pausa” è solo un modo dolce per morire, è una forma di eutanasia della coppia. La domanda che farei non è se si esce, ma perché la crisi? Cosa indica una crisi? La crisi è un sintomo e va visto come tale, cioè sta ad indicare che le cose non funzionano più come prima perché qualcosa è cambiato e non si ha la voglia di prendere in considerazione questo cambiamento. Se la crisi è vista come una minaccia, difficilmente verrà presa seriamente. Ciò che spesso non è preso in considerazione è che la crisi è anche un’opportunità per crescere e realizzare ciò che la situazione precedente non permetteva.

Dopo una lunga crisi è possibile uscirne? La terapia serve per cambiare le cose in meglio?

Più tempo passa e più è difficile uscirne perché si accumulano risentimenti e rigidità. Una buona terapia può funzionare nella misura in cui venga vista come occasione per capire e riflettere su se stessi. La terapia non funzione quando viene vista come il luogo per avere giustizia o per far cambiare il comportamento dell’altro.

Perché si scelgono o si prova interesse sempre per le stesse persone nonostante i continui fallimenti?

Penso di aver già risposto a questa domanda, posso aggiungere qualcosa a tal proposito riferendomi ai primi studi fatti dagli psicoanalisti che, per motivi sociali, hanno applicato il metodo psicoanalitico alle coppie. La base su cui scegliamo un partner non è affatto casuale, anche se sembra che lo sia. Scegliamo sempre a partire da un segnale colto nell’altro che diventa significante di qualcosa che ci appartiene e che abbiamo sperimentato nelle relazioni importanti della nostra vita per esperienza diretta. Similia similibus curantur, cioè cercare la cura al proprio malessere con qualcosa di simile (madre, padre, ecc) a ciò che lo ha prodotto; oppure, come variante, cercare nell’altro il simile nella speranza che sia diverso, cioè nel tentativo di smentire il fallimento vissuto con il proprio caregiver. Se, per esempio, un padre risulta essere un uomo sottomesso e succube di una moglie incontentabile e la stessa agli occhi della figlia lo rende debole e di poco valore, visione in conflitto con il desiderio di avere un padre da ammirare e di cui essere orgogliosa, la ragazza con molta probabilità cercherà un padre-marito che non somigli al padre, ma che sia volitivo e sicuro di sé, perdendo di vista la dimensione tolleranza e disponibilità del padre. Lo sviluppo della relazione molto probabilmente porterà la donna ad essere scontenta di un marito che impone se stesso e la porterà ad essere richiedente e rimproverante nei suoi confronti. In questo modo, volendo sfuggire al destino di ripetere la relazione osservata tra i genitori, viene di fatti riproposta.
Nella coppia le cose si complicano e si intrecciano perché il partner con cui si intrattiene una relazione deve essere portatore di una problematica che si incastri con la propria. Deve, cioè, per un verso, rispondere al desiderio inconscio dell’altro e allo stesso tempo deve rispondere al proprio desiderio inconscio. Nel caso che citavo prima, per es., il partner di colei che ha avuto un padre sottomesso e svalutato, sarà un uomo oppositivo o rigido con cui sarà difficile trovare momenti di accettazione e condivisione, ogni decisione sarà motivo di litigio e contesa. Sia lei che lui devono incarnare il prototipo di chi non si piega mai. Lei, perché non può identificarsi con il padre svalutato; lui, perché è stato scelto di proposito per non fare i conti né con il padre (accettandolo per quello che è) né con la madre (mettendo in discussione le sue pretese). Lui, dal canto suo, per la sua configurazione inconscia e per incastrarsi, deve essere alla ricerca di una compagna oppositiva e rigida forse per misurarsi ed averla vinta.

Questa situazione mi sembra un tantino ingarbugliata, potrebbe fare un esempio pratico? Sarebbe interessante poter osservare la dinamica di cui ha parlato.

Le riporto un caso concreto: Antonio 45 anni vive con Ada da circa cinque anni. Chiedono una consultazione perché, nonostante si amino tanto, litigano continuamente. Ada è una donna molto dolce attenta alle cose di casa e al compagno, è, come si dice, una persona seria e affidabile. Da ragazza è stata abusa dal padre e la madre, una donna trasandata e superficiale su tutti i piani, non è stata un buon esempio di vita. Antonio è un uomo di bella presenza, intelligente e razionale. È stato per la famiglia d’origine un punto di riferimento per la sua razionalità e capacità organizzativa. Ada cerca in tutti i modi di non assomigliare alla madre e cerca di comportarsi diligentemente. Tuttavia, nonostante tutti gli sforzi che fa, il compagno non è mai soddisfatto di come lei gestisce la casa. Antonio è sempre critico e controllante. La domanda che possiamo farci è: come Antonio ha scelto una donna che secondo lui non ha un buon governo della casa? Potremmo rispondere che Antonio aveva bisogno di perpetuare fuori dalla famiglia d’origine il ruolo di colui che controlla e giudica e resta il punto di riferimento per chi gli sta vicino. Abbiamo visto però che Ada fa di tutto per essere una compagna affidabile, come mai Antonio non si accontenta e si rilassa un po’ delegando alla compagna la gestione di casa? Qui sta l’incastro delle loro configurazioni identitarie inconsce: Antonio desidera da un lato lasciare il controllo per godere dell’affetto della compagna, ma non può farlo senza mettere in discussione la sua identità, fondata sul suo essere razionale e controllante. Ada desidera una relazione rilassata e tranquilla dove ci si possa fidare e affidare all’altro senza timore di essere abusata, ma non se lo può permettere perché di fondo non si fida di nessuno, neppure di se stessa, pertanto delega al compagno la funzione di controllore. Lei ha bisogno che lui sia razionale (non emotivo, prevedibile) e controllante al proprio posto (probabilmente si rimprovera di non essere stata attenta all’irrazionalità del padre). Entrambi sono implicitamente concordi che il controllo e l’insoddisfazione che lo produce non deve mai venir meno per non mettere a rischio le loro configurazioni identitarie. La paura di cambiare, cioè abbandonare le strutture difensive che sono servite in passato per far fronte alle situazioni effettivamente rischiose per la propria sopravvivenza psichica, non permette oggi di considerare la nuova realtà costituita da loro stessi e non da altri.

Quanto è importante una buona intesa sessuale all’interno della coppia? Si può essere intimi anche non avendo una forte intesa sessuale?

Intimità e sessualità sono due aspetti che riguardano la coppia ma non vanno confusi: ci può essere intimità senza sesso e sesso senza intimità. Una buona integrazione dei due aspetti è auspicabile per l’intesa tra i due, quella che spesso viene definita “complicità” dei partner. La sessualità è parte integrante della coppia, ma non può essere presa come misura del benessere della coppia; questo pregiudizio, cioè che “deve esserci una buana intesa sessuale”, crea molti problemi alle coppie, infatti si corre fortemente il rischio di riferirsi a modelli esterni, a chiacchiere sentite da amici o ai modelli delle serie Tv e dei giornali o libri rosa. Il sesso tra due amanti appartiene a loro e se qualcosa non va più come prima significa che qualcosa nella relazione è cambiato ed è a questo livello che va cercata la motivazione. Per quanto riguarda l’intimità vorrei lasciar parlare chi ne sa più di me, Francois Jullien :
“il proprio dell’intimità, a differenza della relazione amorosa, è anche di creare stabilità, di dare al soggetto un posto… Sfuggendo al circolo appagamento-delusione, cui è condannato il desiderio amoroso, non teme di essere pensata nella durata, che anzi vuole eterna… L’intimità, in fine, è necessariamente esclusiva,…, eppure non è egoista, perché non è possessiva… L’intimità si alimenta di poco, le basta un ‘niente’… non è insipienza (acquietamento), perché vi è sempre la tentazione di superare la frontiera, e quindi il confronto con il suo limite… fa compiere ‘follie’ “.
Aggiungo un altro pezzo del pensiero di Jullien che caratterizza l’intimità e la differenzia dalla sessualità: “Entrare in intimità, perciò, è abbandonare: rinunciare alle mire che si avevano sull’altro, privarsi di ogni strategia nei suoi confronti, dire addio ai progetti di annessione e cattura, trattenersi anche da ogni intenzione. In breve, è abbandonare ciò che si conosce, e che si possiede, come nel caso del proprio ‘io’.”