ESPERIENZE EMOTIVE E MALATTIE AUTOIMMUNI Gli obiettivi possibili in psicoterapia

 

Esperienze emotive e malattie autoimmuni

Gli obiettivi possibili in psicoterapia

di Erica Melandri

 

 

Aspetti psicologici e relazionali nelle malattie autoimmuni

L’esistenza di un legame bidirezionale tra funzioni immunitarie e aspetti psichici e relazionali è ormai acclarata.

Nel caso delle malattie autoimmuni, anche se sulle loro cause c’è ancora poca chiarezza, è molto probabile che nella loro determinazione e/o esacerbazione, concorrano un insieme di fattori psicosociali, ovviamente solo in presenza di una certa predisposizione genetica.[1]

Nell’anamnesi psicologica di molte condizioni autoimmuni, infatti, sono presenti eventi di stress cronico come: perdita di una persona cara, separazione o divorzio, vissuto di solitudine e situazioni ripetute di conflittualità. [2] L’alta incidenza di eventi di perdita nel periodo precedente la malattia (rilevate soprattutto nel lupus eritematoso sistemico)[3] spinge a pensare alla possibilità di una stretta associazione tra l’attivazione emozionale dovuta alla perdita di una relazione significativa e le alterazioni del sistema immunitario e alcune alterazioni biologiche.

Questi dati, pur non stabilendo un nesso di causa-effetto tra esperienze emotive e patologia autoimmune, alludono al ruolo che i fattori psicologici possono avere nella malattia, non solo come precursori, ma anche come strumenti di cura. È plausibile ritenere che, per la persona che convive con una malattia cronica, disporre di uno spazio di contenimento e modulazione dei propri affetti negativi, in un rapporto terapeutico e/o nella propria rete sociale di riferimento, possa influenzare la risposta psicologica e quindi fisiologica alla malattia.

Reagire alla diagnosi

Ricevere una diagnosi di malattia cronica è un’esperienza che può creare una frattura nel senso di continuità di noi stessi. L’idea di ammalarsi di una patologia cronica è solitamente un evento poco rappresentabile per chi è in salute. Le persone mediamente sane, comunemente vivono nell’idea che è in fondo impossibile ammalarsi (gravemente), un senso di onnipotenza su cui si basa la loro sicurezza esistenziale. Nel caso di una diagnosi di malattia cronica, è un po’ come se si dovesse rinunciare a quell’illusione, che bruscamente si tramuta nell’impossibilità di guarire.

La sofferenza che ne deriva può essere lacerante e, soprattutto all’inizio, quando la percezione predominante è una frastornante insensatezza, è difficile riuscire a tradurla in parole. Un po’ come se il proprio sentire diventasse innominabile perchè percepito come privo di senso, e quindi deprivato delle parole che, in situazioni ordinarie, riescono a dare senso. Se qualcosa non è nominabile, allora diventa anche poco pensabile e dunque meno arginabile. Le emozioni possono quindi essere sentite col corpo e venire completamente espropriate dalla mente.

L’elemento tipico di queste patologie, la costante incertezza sul loro andamento, può scardinare la percezione del proprio tempo interno. Mentre il tempo esterno scorre lineare e resta intatto, il tempo interno si disarticola.

Il tempo può fermarsi e portare a pensare “Che senso ha progettare se poi peggioro?”, “Che senso ha costruire se non posso guarire?”. Come se poi, in una condizione di non malattia, i nostri progetti non fossero comunque finiti, comunque mortali.

Oppure, sul versante opposto, il tempo può iper-accelerare, spingendo all’iperattività e all’iperproduttività in senso evitante. Come se impegnarsi in opere solide e monumentali desse alla propria esistenza la stessa garanzia di solidità.

Nel primo caso è frequente assumere un atteggiamento di controllo e di attenzione verso i più piccoli segni di disturbo fisico: si rimane nell’attesa di qualche pericolo imminente, anche di fronte a stimoli innocui o in stati di remissione della malattia. In un certo senso, come il corpo non distingue tra sé e non sé (e attacca i tessuti sani riconosciuti per errore come estranei), anche la mente sviluppa una reazione autoimmune attivando difese anche in assenza di pericolo.[4]

Nel secondo caso, si assumono atteggiamenti che sfidano la paura della malattia attraverso il contrattacco: per esempio, se ho paura che la malattia ostacoli i miei progetti con la sua imprevedibilità, allora mi butto in più attività possibili per negare ogni possibile richiamo all’esistenza della malattia.

Obiettivi psicoterapeutici possibili

Un percorso psicoterapeutico è in grado di generare un cambiamento interno, pur non cambiando il dato esterno della malattia. Se la malattia è, infatti, una manifestazione oggettiva, il modo in cui incontra la persona è assolutamente soggettivo, ed è proprio su questo che è possibile lavorare terapeuticamente. Elaborare il lutto del come si era prima, può avere una risonanza diversa per ogni persona, a partire dall’idea di sé, dalle proprie risorse interne ed esterne e del proprio momento di vita. Per esempio, pensiamo ad ammalarsi in una fase di snodo e di definizione identitaria come l’adolescenza rispetto a un’età più avanzata; ricevere la diagnosi in una situazione di appagamento relazionale e/o professionale o nel contesto di una crisi personale; ricorrere periodicamente alle cure mediche può essere diverso per chi è abituato a fare tutto da sé, rispetto a chi è più allenato ad affidarsi all’altro.

Riuscire, con l’altro, a trovare le parole che rendano nominabile e quindi pensabile tutta la sofferenza, la rabbia, la frustrazione e la paura per essere costretti ad abbandonare l’idea che avevamo di noi stessi, le parti che sentivamo definirci e che ora ci sfuggono senza chiederci il permesso. Rendere dicibile il non dicibile, tirare fuori che cosa significa per noi attraversare la sfida della malattia, che cosa della nostra storia affettiva e delle nostre esperienze fa riemergere e che emozioni fa risuonare.

Lavorare per rinnovare la propria progettualità di vita, laddove l’impatto con la malattia ha scardinato le proprie coordinate temporali. E non nel senso di restaurare, termine che evoca un ritorno alla condizione antecedente la malattia, quindi a una condizione irrimediabilmente passata, che nega la realtà attuale. Piuttosto nell’idea di aggiornare la propria identità, integrando nella propria biografia l’esperienza presente della malattia che, in molti casi, può dare quella spinta abilitante in grado di accorciare la distanza con i nostri desideri.

Elaborare il lutto del come si era prima, significa conquistare via via la possibilità di pensarsi non solo in relazione alla malattia, alle limitazioni da essa imposte e alla propria identità prima della malattia. Dare alla malattia un ruolo meno totalizzante nella definizione di chi siamo, e pensare che possiamo divenire anche con essa. E riconquistare, a fronte dell’impossibilità della guarigione, la fiducia che per noi esistano ancora nuove possibilità.

[1] De Coro A., Mucelli R., (1997), Per un approccio dinamico-relazionale al problema dei disturbi psicosomatici: il Lupus Eritematoso Sistemico, Psychomedia

[2] Solano L., Coda R., (1994), Relazioni, emozioni, salute: introduzione alla psicoimmunologia, Piccin, Padova.

[3] De Coro A., Mucelli R., (ibidem)

[4] De Coro A., Mucelli R., (ibidem)